giovedì 3 marzo 2011

Integrare, includere! Non sciogliere solo il ghiaccio!!

Vorrei riportare di seguito un brano[1]  che penso sia davvero esemplificativo di come spesso si consideri integrazione-inclusione ciò che in realtà non lo è.

“Una storia racconta che un uomo, che era molto attivo nella lotta per i diritti umani, ritornò a casa dopo un duro giorno di lavoro. Quando si addormentò, sognò che un angelo gli annunciava che era stato condannato all'ottavo girone dell'Inferno. Interrogato su come fosse l'ottavo girone, l'angelo gli concesse il diritto di vederlo. Quando arrivò sul posto, udì qualcuno che si lamentava dicendo che in quel posto faceva troppo freddo per poterci stare. Vedendo una montagna di neve - la fonte del freddo - l'uomo decise che avrebbe sciolto la neve con il calore del suo corpo; si tolse la maglia e si avvicinò alla montagna. Ora dopo ora il calore del suo corpo trasformò la montagna di neve in un fiume d'acqua; quando tutta la neve fu sciolta, si rimise la maglia, pieno di gioia per ciò che aveva compiuto. Poi, con immenso disappunto, vide che il fiume sciolto era diventato un grande lago di ghiaccio! Il freddo diventò ancora più pungente di prima”.


I cambiamenti che ciascuno attua, nella scuola come nella società, in favore dell'integrazione di persone in situazione di handicap, rischiano di essere inutili o addirittura dannosi se non intendono essere davvero risolutivi, e vogliono solo salvare le apparenze in favore di un inserimento di facciata. 


MA... CHE  COS'È L'INTEGRAZIONE-INCLUSIONE?

Per definire con precisione l’idea di integrazione è necessario, a mio avviso, sgomberare il campo da ogni dubbio e chiarire che cosa non è integrazione.

Integrazione non è, ovviamente, separazione! Proprio per superare qualsiasi forma di emarginazione ed evitare l’isolamento degli alunni, in situazione di handicap, prima, e dei cittadini, poi, si è giunti nel 1977, con la Legge 517, al loro inserimento nelle scuole comuni.

Ma integrazione non è neppure inserimento! Come già chiarirono, infatti, i Programmi ministeriali per la scuola elementare del 1985, non è sufficiente una “semplice socializzazione “in presenza” (…). L’alunno in situazione di handicap pone alla scuola una domanda più complessa di aiuto educativo e di sostegno didattico”.

Integrazione non è, infine, assimilazione! Le persone in situazione di handicap, infatti, devono essere rispettate nei loro tratti essenziali: difficoltà, senza dubbio, ma anche potenzialità, caratteristiche assolutamente individuali, competenze.

Integrazione-inclusione è, invece, interazione, fare insieme, agire, conoscersi senza mai disattendere l’obiettivo dell’apprendimento.
Dovrebbe apparire scontato, estremamente evidente, indiscutibile che l’integrazione degli alunni in situazione di handicap nella scuola comune non può rappresentare un’ennesima forma di discriminazione di tali alunni: nel momento in cui gli alunni portatori di handicap vengono essi soli, seguiti dall’insegnante di sostegno o vengono, essi soli, allontanati costantemente dall’aula, per svolgere specifiche attività individualizzate non si può ancora parlare di integrazione. Ma non si può parlare di integrazione neppure nel caso contrario: un bambino con particolari necessità che trascorre tutto il suo tempo nella stessa aula coi compagni cercando di portare avanti attività che non si inseriscono all’interno della sua area di sviluppo prossimale[2], ma che lo rendono solo apparentemente uguale a loro non è un bambino integrato.
Il compito della scuola, infatti, nella prospettiva dell’integrazione, non è quello di rendere uguali tutti gli alunni: non è questo il significato dell’uguaglianza delle opportunità educative. Offrire a tutti pari opportunità significa che ogni alunno deve avere la possibilità di ampliare al massimo tutte le sue potenzialità formative e di esprimere al massimo la sua identità personale, sociale, culturale, anche nella prospettiva dell’orientamento professionale prima che scolastico. E questo può avvenire se si interagisce, se ci si adatta reciprocamente, se c'è un accomodamento dell'idividuo  e del contesto (compresi, ovviamente, coloro che operano nel contesto). 

Per non sciogliere solo il ghiaccio, dunque, la scuola e la società devono includere: esattamente il contrario di escludere!


[1] Feuerstein, Rand, Rydnes, Non accettarmi come sono,Sansoni Editore, Milano, 1995,
[2] Nella teoria di Lev Vygotskij la Zona di sviluppo prossimale (ZSP) è un concetto fondamentale che serve a spiegare come l'apprendimento del bambino si svolga con l'aiuto degli altri. La ZSP è definita come la distanza tra il livello di sviluppo attuale e il livello di sviluppo potenziale, che può essere raggiunto con l'aiuto di altre persone, che siano adulti o dei pari con un livello di competenza maggiore. Vygotskij infatti, sostiene che il bambino impara da coloro che si trovano ad un livello di conoscenza superiore. Secondo Vygotskij, l'educatore dovrebbe proporre al bambino problemi di livello un po' superiore alle sue attuali competenze, ma comunque abbastanza semplici da risultargli comprensibili - insomma, all'interno di quell'area in cui il bambino può estendere le sue competenze e risolvere problemi grazie all'aiuto degli altri (la ZSP, appunto). Questi problemi potranno infatti essere risolti dal bambino aiutato da un esperto (l'educatore, un adulto o anche un pari con maggiori competenze in quel campo), ma non dal bambino che dovesse risolverli da solo (in quel caso saremmo all'interno della zona di sviluppo attuale). Questo processo dovrebbe dunque permettere al bambino di acquisire nuove capacità senza sperimentare la frustrazione del fallimento.

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