Ritengo, a questo punto, importante chiarire il lessico riguardante il mondo dell’handicap poiché questo termine è stato spesso male interpretato: il termine handicap, infatti, è spesso erroneamente attribuito indifferentemente alla menomazione fisica o mentale o allo stato di bisogno che ne deriva.
Un contributo fondamentale è arrivato in tal senso dalla Organizzazione Mondiale della Sanità che, nel 1980, ha pubblicato un manuale per una classificazione riferita alle conseguenze della malattia o delle lesioni[1] nel quale si distingue fra:
· menomazione “(…) qualsiasi perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica. (…) La menomazione non ha a che vedere con l’eziologia, cioè il modo secondo cui una certa condizione è insorta, né al fatto che si tratti di una alterazione o perdita transitoria o permanente”. Lo stato di menomazione riguarda funzioni singole delle parti del corpo.
· disabilità “(…) qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano”. La disabilità riguarda compiti, abilità, comportamenti.
· handicap “(…) condizione di svantaggio conseguente a una menomazione o ad una disabilità che limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale per un soggetto in relazione ad età, sesso, e fattori socio-culturali”. L’handicap è causato, dunque, dall’impatto di menomazione e disabilità nei confronti della vita sociale e relazionale.
Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, in definitiva, è handicappato colui che è riconosciuto tale dal suo gruppo di riferimento e dalla cultura di appartenenza, che stabilisce, in base alle sue aspettative, il concetto di norma e quindi di disabilità.
Alle definizioni sopra indicate è ricollegabile l’art. 3 della Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone diversamente abili del 5 febbraio 1992, n. 104 secondo la quale “È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.
La riflessione culturale degli ultimi decenni, culminata con la approvazione della Legge appena citata, ha portato ad un cambiamento negli atteggiamenti, nella mentalità, nella concezione stessa di handicap che, dai più, viene ormai, giustamente, considerato come un insieme di barriere architettoniche, sociali, psicologiche ed educative che possono ostacolare le persone più deboli, compresi i disabili, creando una situazione di emarginazione e svantaggio.
Con questa Legge, insieme al modo di percepire l’handicap, è mutata anche la terminologia che lo riguarda. Alla dicitura portatore di handicap, infatti, è subentrata quella di soggetto in situazione di handicap[2] che vuole sottolineare il fatto che l’handicap non è attribuibile all’individuo che lo porta con sé, bensì all’impatto col contesto più ampio nel quale ciascuno vive.
Per approfondire ulteriormente questo tema: Indicazioni e riflessioni a proposito di terminologia
[1] Organizzazione Mondiale della Sanità, Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli svantaggi esistenziali: manuale per una classificazione riferita alle conseguenze della malattia. Milano: Centro Lombardo per l'Educazione Sanitaria Editore, 1980
[2] Spesso utilizzo anche altri sinonimi di “persona in situazione di handicap” pur riconoscendo questa come la definizione più corretta.
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